Decisi così di fare il passo successivo, di vedere con i miei occhi l’immobile, immaginando la mia vita intrecciata con quel appartamento. Mentre mi avvicinavo, pensavo che l’idea di possedere un bene che sarebbe diventato mio con il tempo, con la calma, non mi dispiaceva affatto.

Con questo spirito arrivai a Donoratico, il paese che ancora portava il profumo di mare, ma anche quello di una campagna che sembrava non finire mai.

La casa dall’esterno mi ricordava quella di zia Maria, nascosta dietro una fila di piante e arbusti che sembravano custodire il segreto del tempo. Lì, ogni pietra, ogni angolo, aveva la sua storia. Non una storia urlata, ma sussurrata, che emergeva tra le pieghe di quella casa che aveva l’aria di essere vissuta e di essere anche il custode di una memoria antica.

Quando entrai, il caminetto, al centro del salotto, accoglieva l’aria umida con il suo calore dolce e rassicurante. Il fuoco, in realtà, non era che un eco di vecchie tradizioni, il crepitio delle fiamme sembrava essere una lingua che conoscevo già, come se avessi sempre vissuto accanto a quel suono. La proprietaria, con la sua figura minuta e calma, stava preparando qualcosa nel cucinino. Ogni gesto che compiva era parte di un rito, lento, misurato, che non chiedeva altro che essere osservato. I suoi movimenti tra i piccoli scaffali pieni di pentole e spezie avevano un’armonia che parlava di un tempo in cui ogni cosa aveva il suo posto, ogni azione il suo significato.

Il salotto, con le poltrone di velluto e le tende di lino che filtravano la luce morbida del pomeriggio, sembrava un angolo sospeso, come un quadro che non voleva essere mai spostato. C’erano libri sulle mensole, non erano titoli di grido ma erano stati letti, erano là come segno di una cultura quieta, che non aveva bisogno di essere esibita, ma di essere vissuta.

Le due camere da letto erano semplici, con letti di ferro battuto e coperte che sapevano di lana. L’odore della casa era il profumo del legno e di lavanda, un’aria che si mischiava con il respiro del mondo fuori.

Ma il vero incanto di quella casa era il poggiolo. Si apriva sul nulla, o meglio, sull’infinito. Da lì si vedeva l’orizzonte, che pareva finire nella linea blu del mare, ma era solo una promessa, un limite che invitava a guardare oltre. Ed è stato li, in quel piccolo spazio aperto verso l’infinito che ho capito che quella casa, con i suoi angoli e la sua calma, sarebbe divenuta una parte della mia vita, un punto fermo che non aveva bisogno di spiegazioni perché era già dentro di me.