Entrai nell’ascensore e mi lascia trasportare fino al terzo ed ultimo piano. Il meccanismo si mise in moto con un gemito ovattato. Il cuore batteva a martello. Stavo comprando un rifugio, o seppellendomi vivo in una provincia sconosciuta? Le porte si aprirono. E il mondo cambiò.

Non mi ritrovai su un pianerottolo di fronte ad una porta da varcare. L’ascensore si aprì direttamente in un fiume di luce dorata che mi investì, calda e silenziosa. Quattro finestre, una dopo l’altra su tutta la parete, inquadravano Rovereto come un dipinto vivente: i tetti rossi, il verde delle colline, le Dolomiti in lontananza come guardiani di pietra. Il respiro mi si fermò in gola. L’ansia si sciolse, sostituita da uno stupore totale.

Il profumo di legno, caldo e avvolgente, riempì l’aria. Il parquet sotto i miei piedi non era una superficie fredda, era un’estensione di quella luce, che guidava lo sguardo verso l’interno. A sinistra, il grande spazio aperto del soggiorno-cucina. Dritto davanti a me, una porta a vetri spalancata sul terrazzo, dove il cielo trentino sembrava a portata di mano e dove avrei passato ogni momento della bella stagione in compagnia dei miei nuovi amici trentini e non.

Mi mossi, come in un sogno. A destra, una porta socchiusa rivelava la prima camera, un quadrato di pace con una finestra che abbracciava il cielo. Più avanti il bagno, dove la luce giocava su piastrelle chiare e fresche, una pausa di pietra liscia tra il calore del legno. E poi, la camera matrimoniale con l’elegante cabina armadio e una seconda porta che prometteva un accesso notturno e privato al terrazzo. Ogni stanza respirava, autonoma e serena.

Era tutto vero. Questa non era una fuga. Era un approdo. E in quel momento capii la perfezione silenziosa del posto: quassù, la testa tra le nuvole, in questo nido di luce e legno. Un attico una mansarda non saprei definirlo nel nome ma nel fatti ed era il mio nuovo appartamento. E giù, nel ventre sicuro del palazzo, il garage che avrebbe atteso l’auto per le fughe in montagna e la cantina, quella cella asciutta e buia per le radici, per le casse dei libri, per il vino che invecchia in pazienza. Tutto era connesso.

Quell’ascensore, che mi aveva portato su, carico di dubbi, si era rivelato un passaggio segreto. Non mi aveva portato in un semplice appartamento. Mi aveva portato a casa. E per la prima volta, guardando quella luce, seppi con certezza assoluta di non voler scendere mai più.